“I giochi dei bambini non sono giochi e bisogna considerarli come le loro azioni più serie” (Michel De Montaigne)
Quanta importanza diamo al gioco dei nostri figli? Quanto ne sappiamo e, soprattutto, quanto tempo dedichiamo a giocare con loro? Di solito l’unica e trasversale risposta è: poco.
È frequente che un bimbo chieda con vocina supplichevole: “giochi con me mamma/papà?“. I vari non mi va, più tardi, oppure “non puoi farlo da solo?” sono destabilizzanti anche se, in effetti, i bambini sono capaci di giocare da soli per ore o in compagnia di un amico. Eppure la nostra presenza è indispensabile.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza nella delicata sensibilità dei bambini.
I fattori principali che accompagnano e influenzano le scelte ludiche dei bambini sono due: le fasi di sviluppo cognitivo e il vissuto emotivo.
Dalla nascita ai 3 anni il bambino cerca più spesso l’adulto. Dipende da lui per la sua motricità – non ancora autonoma – e per la strutturazione del linguaggio, inoltre il suo mondo è costituito prevalentemente dalla figura di accudimento con cui interagisce e si relaziona.
Dai 3-6 anni il bambino inizia una fase più sociale che coincide con la scolarizzazione. Inizia pertanto a confrontarsi con i coetanei e lo fa proprio attraverso il gioco. È un passaggio che può risultare difficile e complesso, in particolare se figlio unico, data la difficoltà in questa fascia di età nel condividere i giochi o rispettare tempi e modalità, oltre che nel gestire la frustrazione dell’attesa ovvia in un contesto scolastico.
Superati, tuttavia, i primi ostacoli scopre la bellezza del gioco insieme a bambini suoi simili, apprende le capacità relazionali, sente di essere un soggetto che influenza la realtà ed ha parte attiva in essa.
“Il contrario del gioco non è ciò che è serio bensì ciò che è reale” (S. Freud).
L’esperienza ludica lo educa perciò ad avere fiducia nelle proprie capacità, diventa consapevole del suo mondo interiore e di quello esteriore mentre la mente si apre dando spazio alla fantasia, protagonista del gioco, sviluppando la creatività.
Insomma, una vera palestra per la formazione della personalità.
Dai 6 fino ai 10 anni il gioco acquista una funzione specificatamente sociale in quanto è caratterizzato dalle regole.
Si svolge in gruppo, il bambino impara a stare con gli altri e a rispettare le regole che ne garantiscono il buon funzionamento, quindi dell’interazione.
Indipendentemente da questa suddivisione in fasi, di funzione indicativa, il fattore che determina maggiormente la modalità ludica nel bambino è il suo vissuto emotivo. Chiede di giocare in quanto percepisce gli adulti emotivamente distanti e il gioco diventa il mezzo per ristabilire una vicinanza che ha un doppio vantaggio, sia fisico che emotivo.
I bambini sono degli attenti osservatori dotati di una sensibilità percettiva con la quale riescono a cogliere quei segnali che spesso e/o in modo inconsapevole emettiamo, dando loro il senso che a livello emotivo noi non ci siamo. Magari siamo presi da altro, occupati in attività diverse, stanchi, preoccupati o solo distratti. Paradossalmente, è proprio il momento in cui il bambino chiede al genitore di giocare.
Ricevere risposte negative come “Ora no, sono appena rientrata/o, ho da fare, sono stanca/o”, conferma e dà forma alla sua percezione. Così il bambino prova ad insistere, cerca di convincere il genitore, fa perfino qualche capriccio, liquidato in maniera semplicistica come ricerca di attenzione.
Ma i bambini non cercano la nostra attenzione, vogliono la nostra vicinanza emotiva. Vogliono sentire che siamo lì con loro, che condividiamo con loro del tempo, parlando per un po’ la loro lingua.
Perché “i fanciulli trovano tutto nel nulla gli adulti il nulla nel tutto” (G. Leopardi)